Ricercatore iraniano residente a Novara condannato a morte
Ahmadreza Djalali è un medico 45enne iraniano, prigioniero in Iran dove rischia l’esecuzione per essere considerato una spia. L’uomo prima di trasferirsi in Svezia ha vissuto a Novara insieme alla moglie Vida Mehrannia e i figli di 5 e 13 anni, dove dal 2012 al 2015 è stato assegnato al «Centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri» (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. «Sono passati nove mesi dall’arresto di mio marito in Iran – dice la moglie -. All’inizio non ho denunciato la cosa perché un poliziotto ha chiamato la mia famiglia a Teheran avvertendo che non dovevo parlarne, e io temevo di danneggiare la situazione. Ma non posso più tacere: ieri Ahmad ha chiamato sua sorella, le ha detto che sarà giustiziato con l’accusa di collaborazione con Paesi nemici. Pensano che sia una spia. Ma è solo un ricercatore».
Il ricercatore non ha mai tagliato i ponti con l’Iran, dove si recava ogni sei mesi, per tenere workshop universitari. «Non aveva mai avuto problemi». Ma lo scorso 24 aprile, mentre era a Teheran su invito dell’Università, è scomparso. In realtà, Djalali era stato rinchiuso, senza processo, nella famigerata prigione di Evin, in isolamento e senza avvocato.
«Per tre mesi — racconta ora la moglie — è stato tenuto in isolamento assoluto, e per altri quattro parziale, nel Reparto 209 gestito dal ministero dell’Intelligence. Mi chiamava per due minuti una volta al mese. Poi è stato spostato nel Reparto 7, con gli altri prigionieri e per la prima volta gli hanno permesso di avere un avvocato che però non ha accesso al suo file e non può parlarci del caso perché è di sicurezza nazionale».
Djalali ha detto alla moglie di essere stato forzato a firmare qualcosa. «Minacciavano di fare del male a me e ai bambini». Teme che si tratti di una confessione. Il 26 dicembre, quando gli hanno detto che riceverà la «massima pena», ha iniziato uno sciopero della fame che gli ha fatto perdere 18 chili. «Preferisce morire così». Infine, tre giorni fa lo hanno riportato nel Reparto 209 e qui, secondo la moglie, gli è stato confermato dal giudice del Tribunale della Rivoluzione Abolghasem Salavati che verrà impiccato dopo il processo che si terrà tra un paio di settimane.
Gli appelli
«Quest’uomo è in grave pericolo», dice da Oslo Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights, una Ong contro la pena di morte. «Salavati è noto per le condanne a morte contro presunti oppositori politici. Nei Tribunali della Rivoluzione il livello di arbitrarietà è enorme. Il regime è paranoico e i mesi che precedono le elezioni presidenziali sono i più rischiosi». I colleghi fanno appello ai governi di Italia e Svezia, e all’Alto Rappresentante Ue Federica Mogherini.