Ghost in the Shell, la DreamWorks ridà vita al manga cyberpunk

Ghost in the Shell, la DreamWorks ridà vita al manga cyberpunk

Ghost in the Shell è un media franchise composto da manga, anime, film, serie tv e romanzi. Partiti dai disegni di Masamune Shirow, hanno marcato l’immaginario degli anni Novanta. È stato adattato due volte al cinema, nel 1997 e nel 2004, da Mamoru Oshii, ma ritrova vita grazie alla DreamWorks nella versione del 2017 di Rupert Sanders.

Di ambientazione cyberpunk, Ghost in the Shell ci porta in una futuristica New Port City, in Giappone,  dove il Maggiore Motoko Kusanagi e la Sezione 9 (capitanata dal Maggiore e gestita dalla Hanka Robotics) devono scovare un hacker in grado di introdursi nei cervelli cibernetici e prenderne il controllo.

Il Maggiore è un essere unico, il prototipo di quello che potrebbero diventare tutti col passare del tempo. Infatti, il corpo biologico di Motoko è stato sostituito con uno interamente artificiale, ma il ghost, l’anima, continua a esistere. Ed è proprio questa sua natura a tormentarla con forti dubbi esistenziali.

Diversamente da Terminator, qui la lotta non è tra carne e acciaio ma, invece, pone l’interrogativo dell’altro da sé. È la rappresentazione dei due aspetti incompleti dell’umanità che alla resa dei conti si completano l’uno con l’altro. Al fondo del ragionamento è lo spirito incatenato e bloccato dal corpo che diventa poi il mezzo dell’ espressione spirituale. Un dialogo continuo che Masamune Shirow esplica attraverso il manga e che Rupert Sanders (Biancaneve e il Cacciatore) coglie alla perfezione e rappresenta, quindi, nella sua pellicola, l’originale.

Nel film di Sanders, l’action guadagna molta importanza, molte sequenze sono sostenute da una colonna più abituale rispetto al genere stesso, le dinamiche sono più americanizzate come, ad esempio, la metafora del “randagismo” che accomuna i cani di Batou con i ragazzini scappati di casa.

Anche in questa occasione Hollywood solleva polveroni, infatti, è stata attaccata dai fan per la scelta della protagonista, Scarlett Johansson, che richiama il solito problema del whitewashing, ovvero scegliere attori bianchi per ruoli che non dovrebbero essere loro. Certamente è assolutamente lecito chiedersi come una ragazza così possa reggere il peso della poesia high-tech di Masamune Shirow. Ma d’altra parte è il messaggio stesso del manga: dalla dicotomia tra natura e artificio creare nuove forme di soggettività.

È importante sottolineare come la tecnologia non venga considerata né un elemento positivo né negativo. Piuttosto diventa un punto di partenza da cui poter ripensare alla propria identità. Infatti,  la Johansson si impone con un corpo-armatura che sembra rivelare, attraverso una bellezza irreale, la meccanica dell’Io interiore.

Il suo ruolo risalta ancora di più grazie al cast stellare da cui è affiancata: Michael Pitt, Juliette Binoche, Michael Wincott, Takeshi Kitano e Rila Fukushima.

Ora, in conclusione, devo andare a studiare per un esame che non voglio dare perché ad essere onesta non avevo così paura da quando annunciarono che ci sarebbe stata la terza edizione de “La Talpa”, quindi, siccome non sono neanche sicura che tornerò da questa catabasi, volevo salutarvi e dirvi di andare a vedere questo gran film.

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